Il Duca e Barone di Monteiasi Gioacchino Ungaro, economista e fondatore di “Li Castelli”
A chi percorre la ferrovia o la moderna superstrada Taranto – Brindisi, giunto nella cittadina di Grottaglie e superata la salita di Monte Pizzuto, appare all’orizzonte tra le fronde argentee di secolari alberi di ulivi, Villa Castelli. Il paese si adagia sulle ultime propaggini delle Murge, una volta ricoperte da vegetazione boschiva mediterranea, dove il calcare cretaceo affiorava ad ogni passo. Da queste alture lo sguardo spazia tra cielo e terra fino all’orizzonte, dove si adagia l’opalescente Taranto siderurgica. Le abitazioni all’origine erano costituite da casedde, da trulli e da modeste case in tufo: solo in questi ultimi tempi sono sorte moderne costruzioni a strapiombo sulla gravina e sulla piana di Monte Scotano. Qui il cielo è sempre terso, ampio, e luminoso; il terreno invece, in tempi remoti disseminato di pietre, è ricoperto oggi da vegetazione, che porta a maturazione i suoi frutti, più che l’operosità dell’agricoltore che non per la ricchezza del suolo. Terra avara quindi, a sud acquitrinosa e malarica, a nord brulla e sassosa. Terra di confine, stretta nell’antichità tra la Messapia e la Chora Tarantina, nel Medioevo, appartenente prima al feudo di Oria, poi a quello di Francavilla Fontana, era circondata a nord dal feudo di Ceglie Messapica, a sud dal feudo di Grottaglie e a nord ovest dalla Selva Tarantina; in epoca moderna ha avuto come confine la Terra d’Otranto e la Terra di Bari prima, le province di Brindisi e di Taranto dopo. Terra di lavoro, di duro lavoro: qui i moderni Mirmidoni hanno scritto la loro storia di sudore sulle pietre delle alture e sulle zolle della piana. Per le donne era il tempo in cui si rattoppavano “seduta stante” i pantaloni ai fondelli e alle ginocchia, per tornare poi al lavoro dei campi, a raccogliere le olive in ginocchio uno ad una. I ragazzi, anch’essi stanchi, trovavano ancora la forza di giocare a scavaddètte e gli adulti a tirare lu nzàrte.
Numerose sono le tracce dei primi uomini vissuti nel nostro territorio. Qui riportiamo un compendio, dei due volumi “Le pietre della fede nella Diocesi di Oria” e “I Mirmidoni e Villa Castelli”, pubblicati dalle Edizioni Pugliesi di Martina Franca. Dei neolitici che si stanziarono nelle grotte di Monte Fellone, Abate Carlo, Monte Scòtano e nella odierna contrada Pezza Petrosa, solo questi ultimi ebbero una continuità di vita nelle epoche successive. La città, probabilmente Rudiae Tarantina, raggiunse il massimo splendore nel III secolo a.C., quando fu contesa fra i Tarantini e i Messapi della vicina Ceglie. Scomparve dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C.); quando e a causa di chi, è difficile precisarlo. Tutto il territorio si ricoprì si ricoprì allora di una fitta boscaglia, che lo avvolse per alcuni secoli nel silenzio. La storia di questa regione ricomincia più tardi, all’epoca degli Angioini. Carlo I d’Angiò, dopo aver sconfitto Manfredi, figlio di Federico II, fu nominato Re di Napoli. A lui successe Carlo II, detto lo Zoppo (1248-1309), che ebbe cinque figli, dei quali Roberto gli successe sul trono di Napoli e Filippo fu nominato Principe di Taranto. Fu proprio quest’ultimo a sistemare e popolare tutto il territorio a nord-est di Taranto.
Il Principe, rinvenuta miracolosamente durante una battuta di caccia una immagine della Vergine Maria, chiamata “Madonna della Fontana”, fece costruire in quel luogo una chiesetta. Per incoraggiare gli abitanti dei casali vicini e popolare la zona, il Principe Filippo d’Angiò concesse loro molti terreni e relative franchigie. L’abitato si ingrandì sempre più e, per le immunità concesse, prese il nome di Franca Villa. Tutto il territorio circostante fu bonificato, nel quale sorsero numerose masserie. Anche nell’estremo lembo occidentale del feudo, dove le ultime propaggini delle Murge scemano verso la piana, sorgono le seguenti masserie: Monte Scòtano, Abate Carlo, Puledri, Renna, Sciajani, Fallacchia, Tagliavanti, Pezza La Corte, Antoglia, Eredità e la fattoria Li Castelli. Tra le tappe principali dell’origine e dello sviluppo di Villa Castelli si possono annoverare:
– la fattoria Li Castelli e li Lòchere (sotto il Duca G. Ungaro) ;
– il villaggio Li Castelli (sotto il Duca G. Ungaro) ;
– Villa Castelli Comune (sotto il Podestà Raffaele Ostillio).
La storia di questa Fattoria o dimora di caccia dei Principali Imperiali di Francavilla Fontana riveste particolare importanza. Il Duca Gioacchino Ungaro di Monteiasi, uomo dotto, liberale, progressista e sostenitore della piccola proprietà, acquistò nel 1793 dal Regio Fisco Allodiale di Francavilla Fontana, con l’approvazione del Re Ferdinando IV di Napoli, la masseria Pezza la Corte al prezzo di 26.000 ducati, la masseria Antoglia al prezzo di 58.801 ducati e la fattoria Li Castelli con le zone dette Monte Castello, Barcari, Battaglia e Battagliola al prezzo di 27.914 ducati.
Per bonificare tutto il territorio brullo e roccioso, il Duca, a cominciare dal 1796, pensò di affidarlo in enfiteusi ad alcuni nullatenenti dei paesi vicini, A pochi anni dall’acquisto, “i circa 1500 moggi di terra pietraia fruttavano appena 200 ducati, nel 1807 ne rendevano già 2000 e un migliaio di individui furono civilizzati”, così scriveva il Duca nel suo Prospetto Economico-Politico-Legale del Regno di Napoli, pubblicato nel 1807. A quel periodo risalgono alcune storie tristi di miseria, di fame e di duro lavoro, storie che si raccontavano ancora fino a poco tempo fa, oggi non più. In pochissimo tempo quei contadini costruirono strade carrarecce, mulattiere e sentieri, pareti, casedde per brevi soggiorni, e lamie. Più tardi furono costruiti trulli ad uno o più vani, con annesse strutture, come corte, aia, forno, palmento e cisterna. La zona, pietrosa e coperta da macchia mediterranea, fu trasformata in lussureggianti oliveti, mandorleti, ficheti e vigne.
A Gioacchino Ungaro sucesse il figlio Carlo (1781-1840), che continuò la stessa politica del padre. Uomo di grande cultura e amministratore oculato, fu nominato da Ferdinando II intendente in varie città del Regno e infine Consigliere di Stato a Napoli. Per i suoi molteplici incarichi, nominò procuratore delle sue vaste tenute il cognato Giantommaso Marrese, Due gli episodi di particolare importanza di questo periodo. Il primo riguarda la ristrutturazione della fattoria, la costruzione sul prospetto della torre dell’orologio, e l’annessione all’antica cappella dell’ampio locale, usato come scuderia dei Principi Imperiali. A completamento della ristrutturazione della nuova chiesa furono costruiti un campanile a vela ed una piccola volta emisferica. La nuova chiesa (che poi fu chiamata sempre Chiesa vecchia) fu dedicata al SS. Crocifisso e aperta al culto il 1822 dall’Arciprete di Grottaglie, Canonico Vincenzo Maranò. Il 20 maggio del 1830 fu elevata a parrocchia e l’Arcivescovo di Taranto Mons. De Fulgore portò, per la prima volta, il Santissimo e amministrò la Cresima. Il secondo episodio, invece, riguarda una maggiore possibilità di edificare le prime abitazioni nelle vicinanze della fattoria nella spianata Monte Castello. Furono costruiti i primi trulli cazzafittàti e le prime case e palazzi in tufo, disposti a scacchiera lungo l’asse nord-sud. Ebbero così origine la prima piazza e la strada, l’odierno Corso Vittorio Emanuele II.
Informazioni tratte dal volume “LA FEDE FATTA PIETRA A VILLA CASTELLI” dei concittadini Prof. Pietro Scialpi e con la collaborazione di Padre Raimondo Lupo.
L’attuale centro abitato di Villa Castelli è nato nei primi anni dell’Ottocento come naturale conseguenza di una consapevole attuazione, da parte di Gioacchino Ungaro duca di Monteiasi, della teoria economica che propugnava la piccola proprietà contro la grande proprietà agraria.
L’Ungaro aveva infatti acquistato tre vaste masserie dell’ex-feudo degli Imperiali di Francavilla, incamerato dal Regio Fisco Allodiale per mancanza di eredi diretti. Queste masserie, che insieme misuravano oltre mille tomoli, il duca aveva cominciato a concedere in enfiteusi perpetua a braccianti dei paesi vicini, tramite frazionamento in piccoli fondi, in media di tre tomoli, con l’obbligo di migliorarli.
Gioacchino Ungaro parla con grande entusiasmo di questa operazione in un suo libro del 1807. Nel capitolo dedicato all’agricoltura scrive: In una gran tenuta, che io comprai non ha guari dal Regio Fisco Allodiale, che per ridurre a coltura erano appena sufficienti le ricchezze di Creso, quando col sacrificio di un solo interessato se ne volea trar profitto, l’impossibilità di poter migliorare la parte più sterile di questa tenuta m’impegnò a profonde meditazioni, e queste mi obbligarono a farne tanti piccoli censi colli naturali de’ paesi convicini. Scelsi a tal opera gente tre quarti ignuda sulla considerazione, che chi nulla possedeva, potea entrare solamente a quel gran cimento; animai questa gente, facendo concepire delle magnifiche speranze, perchè è pur la speranza la panacea universale, e con delle promesse che dovetti realizzare per loro e per mio vantaggio. Questa gente, che beveva acqua putrida e si nudriva di frutti secchi, e che era infettata da tutti que’ vizj che sono il corredo de’ selvaggi, fu da me utilmente rigenerata… Mercè questa vantaggiosa operazione, circa mille e duecento moggi di terra che mi fruttavano appena duecento ducati annui mi danno nello stato presente al di là di ducati duemila, e mi danno il piacere di veder sussistere per opera mia un migliajo d’individui che ho civilizzato. A questo punto in una nota a piè di pagina si legge: Questi valenti agricoltori han fatto fertile un terreno affatto sterile, perchè intieramente coperto di pietre. Questi agricoltori si possono meritatamente profondere di quegli stessi elogi che danno gli storici agli antichi abitanti dell’isola Egina: quest’isola egualmente sterile e petrosa, collo scavare il terreno e nettarlo di pietre, fu resa fertile, per cui gli abitanti meritarono il nome di Mirmidoni, che significa Formiche. – Strabone 1. VIII p. 258.
L’Ungaro porta questa esperienza come esempio in difesa del partito dei piccoli proprietari, inserendosi nel generale movimento di riforme che in quegli anni pervadeva il regno di Napoli. Come la stragrande maggioranza dei rappresentanti della nobiltà e della classe intellettuale anche l’Ungaro, colpito nel suoi interessi dalla repressione borbonica del triennio precedente, aveva accolto con entusiasmo nel 1806 l’ingresso dei francesi in Napoli ed appoggerà attivamente i programmi di riforma portati avanti prima da Giuseppe Bonaparte e poi da Gioacchino Murat dal 1808 fino alla sua fucilazione nell’ottobre 1815.
Il decennio napoleonico è rimasto nella memoria e nella tradizione storica napoletana come un’età felice, come una parentesi di buon governo in mezzo a secoli di cattiva amministrazione. Il regno delle Sicilie– scrive Gioacchino Ungaro – sin da gran tempo avea preciso bisogno di un re di ottime intenzioni e dell’influenza, che può avere una regina dolce, illuminata e benefica… L’umanità de’ pensieri, la soavità de’ costumi, la benevolenza del cuore dei nostro ottimo re e della sua real consorte finalmente ci persuadono, che una tal coppia sia spedita a noi dal cielo per riparare questi bisogni, e per raddolcire la nostra sorte. Il passato governo che racchiudea in se tutte le cause possibili della sua distruzione, da per tutto ha seminato desolazioni… .
Gioacchino Ungaro e l’agricoltura
Gioacchino Ungaro, fondatore di Villa Castelli, fu un signore dotto e liberale, appassionato cultore dei problemi economici ed agrari. Amico di Filippo Briganti, di Giovan Battista Gagliardo, di Vincenzo Cuoco, di mons. Giuseppe Capecelatro, e degli uomini più eminenti del regno di Napoli, l’Ungaro fu fervido sostenitore della piccola proprietà non solo nei suoi scritti, ma anche nella sua azione pratica. Fu vice presidente della Regia Società di Agricoltura di Terra d’Otranto e nella seduta d’insediamento di essa, celebrata il primo novembre del 1810, lesse un importante Progetto per la conoscenza dell’efficacia, e carattere de’ vini che si producono dalle uve diverse, e del maturo delle stesse per istabilire con vantaggio la piantagion delle vigne.
L’Ungaro sostiene che sono molti i mali che affliggono l’agricoltura del regno di Napoli e che le cause principali di questi mali sono tre: l’ignoranza de’ nostri villani che coltivano per istinto e per abitudine; l’allontanarsi dei grandi proprietari dalle proprie terre, anche essi ignoranti abbandonano i campi alla discrezione di gente infedele per trasferirsi nella capitale, o aspirando di divinizzarsi coll’onore del libro d’oro, o per nascondere nella moltitudine e nella confusione le proprie debolezze; la scarsezza delle nascite, infatti mancano gli uomini che sono il primo mobile dello stato(10).
Malgrado però queste ed altre cause negative, sostiene ancora l’Ungaro, noi abbondiamo di ogni sorta di biade, di vini, di olj, di cotoni, di lane, legumi, carne, formaggi etc. E’ necessario perciò che il governo non guardi più con indifferenza l’agricoltura, ma la protegga e l’aiuti; senza le cure del governo ogni sforzo indicherà ciocchè dovrebbe farsi e quello che non si farà giammai.
L’Ungaro oltre ai tre inconvenienti sopra riportati, che arrestano la fertilità delle nostre terre, ne descrive moltissimi altri. Ritengo sia opportuno elencarne alcuni, in quanto proprio per l’eliminazione di essi si impegnò fattivamente Gioacchino Ungaro nelle sue vaste tenute di Monteiasi e nelle tre masserie che acquistò nel territorio che successivamente prese il nome di Villa Castelli. Ecco in sintesi tali inconvenienti: abbandono in cui si lasciano nelle provincie i piccoli proprietarj e gli agricoltori: ivi, la classe più utile dello stato, lungi da esser protetta e premiata, è il bersaglio degli assassini, degli esattori fiscali, delle squadre de’ tribunali, de’ scrivani e della truppa che gira per la conservazione dell’ordine e delle proprietà. Sinora è stato per noi un problema, se più rovina portasse all’agricoltore un assassino o la squadra che l’inseguisse.
Inoltre,la mancanza de’ soccorsi fa restare nelle provincie molte terre incolte e moltissime pessimamente coltivate. Le cattive raccolte e tante altre disgrazie volontarie ed involontarie fan sì, che per non lasciare i campi incolti debbasi ricorrere a’ soccorsi che danno i negozianti; e quando si è venduto il prodotto, del futuro raccolto a prezzi, così detti, alla voce, allora la rovina del proprietario e dell’agricola è già compita. Deve essere quindi ingaggiata una dura lotta contro gl’infami contratti d’usura.
L’uomo viene premiato in ragione inversa dell’utile che produce. E’ la triste realtà dei privilegi nobiliari. I privilegi invece non dovrebbero essere ereditari e perpetui, ma dati in ragione del merito, o meglio ancora dovrebbero essere accordati solo alla classe dei produttori.
Il legame che soffre fra noi il commercio de’ grani, avvilisce i prezzi di questa derrata; e questo avvilimento rovina e gli agricoltori e l’agricoltura. Non viene proposta una liberalizzazione illimitata a questo commercio, ma si invita il governo ad esperire tutti i mezzi per equilibrare il mercato ed eliminare monopoli e contrabbando.
Denuncia, ancora, la mancanza di mercati che assicurino uno sbocco agli agricoltori per la vendita dei loro prodotti e l’inefficienza della viabilità.
I proprietarj che vivono lontani dalle loro terre senza affittarle, producono un danno all’agricoltura, non solo per la scarsa produzione de’ frutti, ma ancora perchè le spese di amministrazione assorbiscono una gran parte delle rendite. Le leggi dovrebbero favorire gli affitti, e specialmente gli affitti a tempo lungo.
Concessione in enfiteusi del territorio di Villa Castelli
Coerente con questo ultimo enunciato Gioacchino Ungaro cominciò subito a concedere in enfiteusi perpetua i terreni appartenenti alle tre masserie che aveva acquistato nell’anno 1793 nel territorio di Villa Castelli, frazionandoli in tanti piccoli appezzamenti.
Nel 1796 vengono stipulati ben 80 di tali contratti presso il notaio Michelangelo Gioia di Ceglie; il primo porta la data deI 6 marzo e l’ultimo del 21 luglio.
Trascriviamo ampi stralci dal primo contratto stipulato tra il duca Gioacchino Ungaro, tramite il suo procuratore sacerdote don Dionisio Greco di Ceglie, e Vitantonio Gianfreda anch’egli di Ceglie. Le clausole di questo contratto verranno ripetute integralmente, con solo qualche piccolissima variante formale, in tutti i contratti successivi.
Il suddetto don Dionisio Greco spontaneamente asserisce nella nostra presenza, come detto signor duca suo principale tiene, e possiede una tenuta di terre chiuse denominata la pezza della Corte con vari alberi di olivi; site nel feudo di Francavilla, recentemente acquistate dal Regio Fisco Allodiale di Francavilla suddetto, giusta li suoi notorj confini.
E perchè detto signor duca non può attendere, nè far attendere alla migliorazione dei terreni suddetti, si risolse perciò quelle dare, e concedere a migliorare sotto annuo perpetuo canone, o sia censo enfiteutico, e colle diligenze pratticate, si convenne col suddetto Gianfreda di concedere allo stesso tomola sei, e stoppelli sei di dette terre…
E questo sotto il suddetto annuo canone, o sia censo enfiteutico perpetuo di docati nove, e grana quarantacinque in monete di argento; e sotto l’infrascritti patti, vingoli, condizioni, e riserve, vidilicet.
Primo: pagabile il suddetto annuo perpetuo canone…, in ogni anno, et in perpetuum, e fare il primo pagamento nel dì quindeci del mese di agosto dell’anno mille settecento novantasette, non ostante, che da oggi suddetto giorno esso Gianfreda ne prende il possesso… e non ostante ancora qualsivoglia impedimento di peste, e guerra…
Secondo: che mancando il suddetto Vitantonio Gianfreda presente, suoi eredi, e successori dal pagamento del suddetto annuo perpetuo censo… per tre anni continui per qualsivoglia causa, anche fusse giusta… cadono dalla suddetta concessione, ed il suddetto territorio, come sopra, censuito, si devolva, e sia… devoluto a beneficio di esso signor duca concedente, suoi eredi, e successori; e sia lecito alli medesimi quello di pigliarsi colli miglioramenti che in esso si troveranno fatti…
Terzo: che detto Gianfreda presente, suoi eredi, e successori siano tenuti, e debbano, siccome il medesimo Vitantonio Gianfreda promette, ed obbliga se stesso, suoi eredi e successori migliorare dette tornola sei, e stoppelli sei di terre, ut supra, in enfiteusi concessoli, con piantare in esse alberi fruttiferi, viti, etc. frà lo spazio di cinque anni continui decorrenti dal dì quindeci del mese di agosto corrente anno mille settecento novantasei; di maniera, che infine di detti anni cinque fussero dette terre intieramente ridotte a perfetta coltura…
Quarto: che la concessione suddetta, ed il natural possesso di dette terre non s’intenda in modo, o tempo alcuno trasferito a detto concessionario, suoi eredi, e successori, e non meno vi si possa acquistare jus alcuno dalli loro creditori anche pniviligiati fussero; ma il dominio predetto sempre s’intende, e resta espressamente riserbato a beneficio di esso signor duca concedente, di lui eredi, e successori.
Quinto: si stabiliscono le condizioni per una eventuale alienazione delle terre concesse.
Sesto: che gli eredi, e successori in perpetuum di detto concessionario non possano, nè debbano dividere frà loro detto annuo canone di docati nove, e grana quarantacinque per la quota ereditaria, ma fussero tenuti, come lo stesso concessionario obbliga se stesso, di lui eredi, e successori al pagamento in solidum per intero e non già pella suddetta quota ereditaria, al qual beneficio esso Gianfreda con giuramento rinuncia.
Settimo: che nelle annate, che il medesimo Gianfreda, suoi eredi, e successori seminassero grano, ed avena in dette terre, la paglia nascente da dette vettovaglie, purchè non servisse per uso delle loro proprie cavalcature, siano tenuti, come si obbliga con giuramento detto Gianfreda, di lui eredi, e successori darla in perpetuum a detto signor duca concedente…
Ottavo: che fusse tenuto, ed obbligato detto signor duca concedente per lo spazio di anni otto da oggi decorrenti dare al nominato concessionario Gianfreda, e alli di lui eredi, e successori, e famiglia dei medesimi l’uso dell’acqua per bere, e cucinare nella foggia nuova; o dove più li piacera;…
Nono: che siccome tutti li passaggi locali, che si richiedono per condursi li concessionarj ne’ respettivi loro poderi si devono lasciare da esso signor duca concedente, così li stessi restano intieramente a beneficio del medesimo;…
Decimo: che venendosi a farsi oliveto nei terreni predetti da portar frutto; esso Gianfreda, di lui eredi, e successori siano tenuti, ed obbligati macinar quello nel trappeto del menzionato signor concedente duca…; Pari inteso, che siccome il nominato signor duca concedente, di lui eredi, e successori darà un commodo di rimettere per ogni cinque persone, o sei di detti concessionarj il loro frutto delle olivi nei cameni proprj gratis; così esso Gianfreda, e di lui eredi, e successori debbano restar le nozze nascenti da dette olivi a beneficio del medesimo signor duca, di lui eredi, e successori anche gratis.
Undecimo: Possiede il nominato signor duca una niviera nella masseria denominata l’Antoglia contigua a detti terreni conceduti tanto al suddetto Gianfreda, che agli altri naturali di essa terra di Ceglie; e facendosi il caso di cader nevi da raccogliere, il medesimo Gianfreda obbliga se stesso, suoi eredi, e successori andare a raccogliere, ed a battere detta neve raccolta in detta niviera; ed il prefato signor duca concedente, di lui eredi, e successori pagare a raccoglienti, e battitori la giusta mercede, come pagherà gli altri fatigatori sjstenti nella raccolta, o battitura di detta neve; dandogli le stesse a seconda di detto mestiere; e facendosi tutto ciò per lo più sollecito disbrigo di empirsi la niviera suddetta secondo le regole dell’arte.
Decimo secondo: si stabilisce che in caso di piantagione di alberi bisognerà rispettare una distanza di palmi quindeci dal confine.
Decimo terzo: che detto concessionario od enfiteuta fuori del suddetto annuo canone… non è tenuto a pagare altra imposizione…
Decimo quarto: che detto concessionario volendo in dette terre a tempo proprio metter fuoco, che gli sia lecito farlo; ma prima però sia tenuto, siccome con giuramento si obbliga far inteso due giorni prima detto signor duca;…
Decimo quinto: che fusse tenuto detto signor duca,… in tutti li giorni festivi dell’anno far dir la messa nella cappella sjstente nei Castelli da un cappellano eligendo da lui, ed a sue proprie spese;…
Circa dieci anni dopo questa spartizione dei suoi vasti terreni tra tanti piccoli enfiteuti, Gioacchino Ungaro è talmente entusiasta dei buoni risultati conseguiti che esclama con orgoglio: Felici popoli, quando i gran proprietari possedessero l’incantesimo di saper arricchire nel tempo stesso i loro simili e le loro famiglie. Chi vuol far pompa di eloquenza e di erudizione per sostener il partito de’ gran proprietarj e non credere all’esempio addotto, vada egli pure nella provincia di Lecce; e quando vedrà tra i sassi de’ giardini deliziosi, dica senza timor di mentire: questa è l’opra de’ piccoli proprietari, e questa terra appartiene pure al duca di Montejasi.
Carlo Ungaro, succeduto al padre Gioacchino nella proprietà, seguì la sua stessa politica e continuò a dividere fra vari enfiteuti le terre che ancora gli rimanevano. Sono dell’anno 1823 quattro strumenti rogati dal notaio Domenicantonio de Vincentiis di Taranto, con i quali venivano assegnate in enfiteusi perpetua 38 partite, in media di tre tomoli ciascuna. Le prime sette partite di terre incolte appartenevano alla masseria Li Castelli e propriamente alla pezza detta il Lezzito. Anche altre sedici partite appartenevano alla masseria Li Castelli, ma erano situate nella pezza detta il Barco. Cinque partite, anch’esse della masseria Li Castelli, si trovavano nella pezza detta sotto la Battaglia. Ed infine altre dieci partite appartenenti alla masseria Antoglia e Castelli erano collocate nella pezza nominata Rascinola. Procuratore di Carlo Ungaro per i quattro atti fu il cavaliere Giantomaso Marrese, proprietario domiciliato in Monteiasi.
I primi tre atti furono redatti il 2 marzo 1823 nella masseria Li Castelli, infatti così recita la parte finale del primo atto: Fatto, e stipulato nella masseria delli Castelli, di proprietà del sig. duca di Monteasi, distretto di Francavilla, provincia di Terra d’Otranto, nell’abitazione della stessa, nella camera di letto a man destra della sala, corrispondente alla parte di tramontana. La stessa formula verrà ripetuta negli altri due atti. Gli enfiteuti erano tutti naturali e bracciali del Comune di Ceglie, solo don Leonardo Greco era sacerdote. Il quarto atto fu redatto in Grottaglie il 1° maggio 1823; gli enfiteuti erano tutti campagnoli di Grottaglie.
Per il pagamento dell’annuo canone si obligano essi censuarj ogni uno per la sua quota darlo, e pagarlo in ogni anno nel comune di Montejasi, o sopra luogo in mano del fattore, o al signor duca, o a chi ne farà le veci, unica soluzione in ogni dì quattordici di agosto per ciascheduno anno, di moneta d’argento corrente di questo regno, in esclusione di qualunque carta, o altra forma prescritta, o prescrivenda dal governo… .
L’indispensabile assidua presenza sulle terre dell’Ungaro di tanti contadini, nullatenenti altrove, cominciò a portare come conseguenza la necessità per questi ultimi di trasferirsi con le loro famiglie dai loro paesi di origine nel luogo che dava loro da vivere. Cominciarono a sorgere nelle campagne ed intorno al palazzo ducale dimore dall’architettura a trullo o tipo trullo.
Informazioni tratte dal sito www.roccobiondi.it